C

La scuola in carcere è una grande opportunità di dialogo e di cambiamento. Il professor Alessandro Sorrentino dà voce ad una storia e "libera" dall'ombra C.

di Alessandro Sorrentino.

C. ha gli occhi grandi e scuri e una barba ispida e folta. Mi accorgo di lui solo dopo qualche giorno dall’inizio della scuola, perché spesso alcuni alunni in carcere restano invisibili, in disparte, sovrastati dai compagni più esuberanti ed estroversi, come del resto accade fuori. Mi accorgo di lui perché un lunedì mattina, durante una lezione, alza la mano e con gli occhi e il viso sorridenti mi rivolge una domanda. La domanda non è molto pertinente ma nei suoi occhi, grandi e scuri, leggo la curiosità e lo sforzo di vincere la timidezza. Quando lo guardo, me ne rendo conto, mi rendo conto che di fronte a me ho un ragazzo che, su per giù, ha la mia stessa età.

Quando arrivo a casa e apro il registro ne ho la conferma: è un anno più grande di me. È sempre strano avere degli alunni che sono tuoi coetanei, lo è molto di più rispetto ad averne di più anziani. Cosa posso insegnare io a un ragazzo della mia età? Come posso essere una figura autorevole e rassicurante per lui, come posso essergli d’aiuto? Come posso essere un insegnante di un “ragazzo come me”?

Non sono stato io a dover trovare la risposta a queste domande, è stato C. a darmela, al fine di una lezione sulla Rivoluzione francese.

C. ed altri compagni si fermano oltre l’orario e si avvicinano alla mia cattedra, poi rimaniamo soli io e lui.

C. parte con il più banale dei luoghi comuni: “Certo professò che i francesi so’ proprio incazzosi”, mi dice con il suo accento romano. E poi continua: “qua in Italia, invece, se famo annà bene tutto Prof.”, C. sa bene che questi discorsi mi appassionano, che è mia volontà andare insieme a lui oltre alla superficie, per provare a capire, insieme, perché diciamo e affermiamo queste cose. Poi però il discorso va verso altri lidi e come spesso succede in carcere, C. inizia a parlare di sé, dei suoi errori, di tutto ciò che lo ha portato dov’è ora e io osservo questo ragazzo di appena trent’anni, che potrebbe essere un mio amico e mi rendo conto che ha vissuto il doppio delle mie vite, mi parla e mi guarda negli occhi, quasi con vergogna, come se fosse solo colpa sua tutto ciò che gli è successo, come se fosse colpa sua essere nato dove è nato, come se fosse colpa sua avere incontrato chi ha incontrato, come se le sue scelte non fossero state fatte da un ragazzino ma da un uomo adulto.

Allora gliel’ho detto a C., gliel’ho detto che secondo me non era colpa sua e che il fatto che io ero seduto su una cattedra a insegnare e lui, invece, a scuola a trent’anni con una pena da scontare era quasi solo frutto del caso e che io, tra i due, ero stato quello fortunato.

“Allora Prof. tu mi perdoni?” esordisce C. alla fine della conversazione, poi si corregge e dice “scusa, allora mi capisci?”. Eccola la risposta su come essere l’insegnante coetaneo di C.: capirlo e, soprattutto, non giudicarlo. È una cosa che può sembrare scontata ma non per tutti lo è, perché a volte il muro della vergogna per lo stato in cui si trova per un detenuto è troppo alto e troppo duro da scalare e sfondare. A volte, però, per farlo basta mettersi all’ascolto e, se si è fortunati come lo sono stato io con C., sarà lo stesso alunno a darti lo strumento adatto per sfondare il muro di vergogna insieme a lui.

E ora C. lo sa, quelle quattro ore di ogni mattina, per nove mesi, non è il detenuto, è l’alunno è innanzitutto C. e lo è perché è a scuola. E la scuola è scuola, sempre, ovunque, dentro e fuori le mura del carcere.

 

 

Circolari, notizie, eventi correlati